Teatro

Speciale NTFI 2014: L'abito e l'identità: mettersi nei panni degli altri

Speciale NTFI 2014: L'abito e l'identità: mettersi nei panni degli altri

Il sostantivo latino habitus sta a indicare sia un modo di essere, in senso esteriore nonché morale, sia la veste, l’abito come vestimento. Senza l’abito si è nudi in tutti i sensi, si è privati non soltanto del naturale diritto a difendersi dalle ingiurie climatiche, ma anche della possibilità di schermirsi dagli attacchi del disprezzo dell’altro, per il quale un corpo nudo è qualcosa di indecente, inammissibile, inconcepibile e in quanto tale privo di un’identità, di un nome. Senza vestito il corpo annichilisce, la pallida fragilità della sua apparenza oltraggia il senso comune, ed esser nudi di uno status sociale e di sostanze materiali significa senza mezzi termini non esistere.

Tra le sette opere di misericordia corporale previste dal Vangelo v’è quella, la terza, del “vestire gli ignudi”, che consiste appunto nel beneficare dell’essenziale habitus i più bisognosi, imago terrena, concreta, di Dio; Caravaggio ce ne offre una notevole lettura figurativa traducendo alla lettera l’aggettivo “corporale” in un dinamico ed esplicito incontrarsi di fisicità che emergono da un buio ancestrale per indossare la calda veste luministica della sua pittura. Lo spettacolo di Davide Iodice, Mettersi nei panni degli altri, in scena dal 12 al 15 di giugno presso il Centro di Prima Accoglienza di Napoli, si ispira proprio all’opera pittorica del Caravaggio e, coinvolgendo attori professionisti, utenti del Centro di prima accoglienza di Napoli ed esponenti del progetto Scarp de Tenis, offre al pubblico una teoria di sette brevi apologhi sul problema della perdita di identità e sul concetto di abito come simulacro di quella stessa identità smarrita.

L’ex Dormitorio Pubblico di Napoli, ora centro di prima accoglienza, è un grosso casamento anonimo, un corpaccio bigio al cui interno si susseguono piccole corti, usate come palestre o mense, rampe di scale metalliche e stanzette con tre, quattro letti ciascuna, tutte uguali, neutre, vessillo di quella identità collettiva che posti come questo finiscono inevitabilmente per plasmare. Ad accogliere il pubblico al quarto piano dell’edifico, da cui comincia questo viaggio/spettacolo, è un pingue clown dalla bombetta, il naso rosso e un fischietto al collo; tuttavia questi non è che un mero usciere giacché il vero psicopompo è un ometto in abito scuro con cappello e maschera; una maschera speciale la sua, perché riproduce pressappoco gli stessi tratti del volto che va a celare, è plasmata su quello stesso volto (se la nudità cancella ogni segno distintivo dell’essere umano, il suo proprio volto potrà mutare in maschera e trasfigurarlo in qualcosa di altro, un fantasma magari).

Questo Virgilio spettrale porta con sé, il più delle volte, una scatola di cartone di quelle che si usano per il trasporto delle merci, un contenitore mnemonico dal quale sembra uscire una flebile musica evocativa. È innegabile che la cura dell’allestimento sia pregevole e segnata da una forte impronta lirica, una riuscita eco di una moltitudine di vite invisibili. Si comincia il percorso dal locale lavanderia, i macchinari in funzione accompagnano con il loro fruscio inarrestabile il suono di un violoncello dal vivo, mentre una strana creatura fatta di dozzine di abiti indossati gli uni su gli altri, un mostro di stoffa e pizzi, danza spasmodicamente spogliandosi progressivamente di tutto fino a rimanere con la sola sua pelle, a quel punto come un cencio s’avvinghia ai fili di uno stenditoio e resta al sole immobile. Viene poi il turno di una bizzarra poetessa cartomante che in un buio locale che fa da deposito biancheria esorta il pubblico a pescare una per volta tutte le carte del suo mazzo di tarocchi: ogni carta estratta viene associata a un vestito e quest’ultimo è appeso alle spalle della maga. Dal locale biancheria siamo in seguito condotti in una delle stanze da letto del dormitorio, dove troviamo, al centro della camera, un letto trasformato in barca a remi; qui un uomo racconta il suo passato, i lavori fatti, le difficoltà attraversate. Verità e poesia, canto e racconto si alternano in questo come negli altri apologhi che seguono: un marito chansonnier rievoca il suo amore passato, la moglie perduta e l’impossibilità di ritrovare la felicità, mentre abiti da sposa sono utilizzati come pesanti tende/sipario dalle quali emerge, per poi esserne riassorbito alla fine del racconto, il simulacro della sposa svanita; un uomo che colleziona oggetti di ogni tipo, che poeticamente vi si attacca come ad un’ancora di salvezza che lo preservi dall’oblio e intanto canta di farfalle e libertà.

Lo spettacolo di Iodice merita sicuramente di essere guardato e ascoltato, lasciandosi andare a quel dire impacciato, alle improvvise zoppie della voce, al candore di una dizione eccessivamente impostata; tuttavia, forse il suo peccato più grande risiede proprio nell’eccessiva liricità dei testi, come se l’ego dell’autore, in un inevitabile compiacimento verboso, prendesse a tratti il sopravvento sul racconto vivo di questi uomini e donne senza nome.